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Immagine del redattorePaolo Carlesso

L'agricoltura europea




In questi giorni i media riportano la notizia delle proteste dei contadini prima in Germania, a Berlino, protesta che si è poi spostata in Francia, a Strasburgo, e marginalmente vi sono state proteste anche in Italia. Quale è l'oggetto delle contestazioni?

Il Parlamento europeo sta discutendo un regolamento per il ripristino della natura in ambito agricolo1, ovvero ripristinare aree naturali per un estensione sino ad un 20% del territorio agricolo entro il 2030. Le ragioni di questa azione sono dichiarate nella premessa, si vuole con questa misura rallentare i problemi climatici, ma più nello specifico si vuole rallentare la perdita di biodiversità, il depauperamento dei suoli, il degrado dei ecosistemi. Nella premessa si ribadisce con forza che “ecosistemi sani forniscono alimenti e sicurezza alimentare, acqua pulita, pozzi di assorbimento del carbonio e protezione dalle catastrofi naturali provocate dai cambiamenti climatici. Sono essenziali per la nostra sopravvivenza, il benessere, la prosperità e la sicurezza a lungo termine, in quanto sono alla base della resilienza dell'Europa.”

Gli agricoltori, soprattutto del nord Europa non vogliono perdere superfici coltivabili, nella proposta del Parlamento Europeo sarebbe comunque contemplata una contropartita economica, ciò nonostante gli agricoltori ribattono che la perdita di un 20% di superficie coltivabile aprirebbe la strada all'importazione di prodotti da fuori Europa che non debbono soggiacere a tale regolamento prodotti che hanno da sempre meno vincoli ambientali dei prodotti europei.

I problemi ambientali segnalati nella parte iniziale della proposta di regolamento sono più che reali e contingenti, ma le misure proposte rischiano di essere inefficaci e forse anche deleterie se consideriamo il loro impatto ad un ambito non solo europeo.

Dobbiamo però essere del tutto onesti, nell'agricoltura europea non tutto è come ci viene raccontato, esistono problemi ambientali enormi a cui mettere mano, per di più ci sono situazioni molto differenti da stato a stato, da regione a regione, e gli interventi proposti se non dosati e controllati con cura rischiano di accentuare ancor di più le disparità sociali ed economiche degli operatori del settore. Anche l'agricoltura europea fa ancora grande uso di prodotti chimici come pesticidi e antiparassitari, vi sono le lobby delle multinazionali che spingono i loro prodotti che spesso hanno forti ricadute ambientali, sono largamente utilizzati OGM per le colture.

Dicevamo prima che non tutti i paesi sono nelle medesime condizioni, la protesta è iniziata in Germania dove i produttori locali hanno aziende con un'estensione territoriale molto maggiori di quelle italiane e dove c'è meno attenzione al biologico. La Francia aveva situazioni non molto differenti da quelle tedesche, anche se maggiormente diversificate, l'agricoltura francese era tra le prime per quantitativi esportati, in pochi anni (meno di dieci) ha dovuto cedere il passo ad altre nazioni. Le aziende italiane sono piccole, la produzione è differente e vi sono produttori, non tantissimi come si spererebbe, votati ormai ad una produzione di qualità. Il settore agricolo italiano, nel rapporto con l'ambiente, (sebbene si abbiano condizioni molto differenti, e si debba lavorare ancora parecchio) non è tra gli ultimi in Europa, anzi, si può dire che vi sono alcuni produttori di assoluta eccellenza.

Per questo motivo, l'Italia dovrebbe avere un ruolo di maggior rilevanza e responsabilità di guida in ambito europeo, cosa non facile per gli ingenti interessi economici dei grandi produttori che spesso ricevono grandi finanziamenti dall'Europa.

Il problema principale che giustamente, da più parti, viene sottolineato nell'applicazione di un regolamento di questo genere è quello di avere necessità di importare prodotti agricoli da fuori Europa che non devono rispettare le norme ambientali della Comunità Europea. E' evidente nel tentare di risolvere un problema, quello della biodiversità europea) se ne possono aprire innumerevoli altri, produzione di CO2 per trasporto delle merci, prodotti meno controllati dal punto di vista sanitario, competizione asimmetrica sui prezzi, depauperamento di territori fuori dall'Europa.

La gestione dei PAC ovvero dei fondi derivanti dalla Politica Agricola Comunitaria2, potrebbe veramente essere determinante per la difesa dell'ambiente, ma occorre lasciarci alle spalle gli interessi politici e delle lobby.

Dovremmo riuscire ad essere autosufficienti dal punto di vista alimentare e questo dovrebbe essere il principio base per garantire un maggiore rispetto dell'ambiente, siamo consapevoli che non si può precludere l'ingesso di prodotti non europei, sarebbe anacronistico, ma, come Comunità Europea, dovremmo poter imporre il principio di reciprocità, ovvero le merci in ingresso dovrebbero rispettare i regolamenti europei anche per ciò che attiene alla produzione, per gli aspetti ambientali ma anche sociali e perché no, anche in termini di diritti civili.

La questione dell'utilizzo dei suoli mi induce a fare un parallelismo storico, ovvero all'utilizzo del suolo nel settecento, così come lo conosciamo da uno strumento eccezionale per vastità e perizia: la Misura dello Stato attuato nel nostro territorio sotto il regime austriaco tra il 1720 ed il 1750.

In quelle mappe ed in quei registri non vi era alcun lotto con la dicitura incolto, tutto il territorio aveva un uso: vi erano certamente gli aratori, gli aratori con viti, gli orti, i pascoli, le piante da frutto, i gelsi per la produzione serica, ma anche i boschi, con la differenziazione per le essenze, quelle di pregio: castagni e roveri, da impiegare nelle costruzioni, quelle meno pregiate per riscaldarsi o per mobili e altri oggetti. Non si può dire che non vi fosse biodiversità e i prodotti non erano destinati solo al proprio consumo, ma avevano un mercato, magari locale, ma di sicuro interesse. Oggi non è più così, dicevamo dei fondi dei PAC, questi fondi dovrebbero riuscire a sostenere, almeno in un primo periodo, filiere brevi, locali anche e soprattutto per difendere territorio, paesaggio ed ambiente.


Dicevamo che i territori europei hanno situazioni estremamente differenti e occorrerebbe analizzare le peculiarità di ognuno di essi per comprendere le ricadute che una normativa potrebbe avere.

Il nostro territorio, quello del basso varesotto, dell'alto milanese e della Brianza, hanno una situazione territoriale fortemente antropizzata, in cui da decenni assistiamo ad un consumo di territorio, che non si è ancora arrestato, anzi negli ultimi anni ha avuto un'accelerazione.

L'agricoltura, per ragioni speculative è diventata del tutto marginale, e oggi rimangono poche aree interstiziali coltivate tra abitati.

Per le ragioni che elencavamo poc'anzi, ovvero il tentare una sorta di autosufficienza alimentare al fine di preservare il territorio il paesaggio e migliorare il benessere e la salute delle persone, sembra assolutamente necessario intervenire e sostenere l'agricoltura anche in situazioni come la nostra. Rendere l'agricoltura più forte nel nostro territorio contribuirebbe anche a contrastare il consumo di suolo.

In tal senso sono determinanti le strategie politiche agricole e ambientali dell'Europa.


Si dice che noi esseri umani non siamo predisposti per prestare particolare attenzione al verde, inteso come vegetazione, questo sarebbe dovuto al fatto che l'uomo ha sempre vissuto in un ambiente naturale, verde e che avendo la necessità di essere concentrati sui pericoli di quell'ambiente, siamo sempre stati più attenti alle cose che si muovono e meno a quelle che stanno ferme come le piante, anche il colore quindi ha avuto un ruolo in questa nostra disattenzione atavica3.

Oggi forse qualche cosa dovrebbe necessariamente cambiare e dovremmo prestare attenzione anche, forse soprattutto al mondo vegetale, perché è in gioco sicuramente il nostro benessere, ma anche, in un lungo periodo, la nostra stessa sopravvivenza, come rimarcato dalle analisi scientifiche della Comunità Europea a sostegno della proposta di regolamento.

Per questo motivo, e proprio partendo da questo rovesciamento del punto di vista, invito a guardare una foto aerea del nostro territorio e nel farlo chiedo di immedesimatevi in una persona affamata, siate per un attimo un uomo in cerca di cibo, da ricercare non in un supermercato o in un negozio, ma nell'ambiente che vi circonda.

Vi accorgereste immediatamente di trovarvi al centro di un enorme deserto alimentare.

Nell'hinterland milanese, nel basso varesotto, nella bassa Brianza  vi sono pochissimi produttori di ortofrutta, ma anche di cereali, e persino gli allevamenti non sono molti (questo non è sempre un male).

Il confronto con il nostro passato almeno da questo punto di vista, risulta alquanto impietoso, sino alla prima metà del secolo scorso qui si producevano la stragrande maggioranza degli alimenti che si consumavano, si aveva la quasi autosufficienza. Spesso si esportavamo prodotti agricoli ed anche seta, lino, ed anche vino (sino all'inizio del '900 verso Milano).

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che le esigenze alimentari erano altre, e non sempre l'alimentazione era adeguata, che si doveva sfamare una popolazione di 3 o 4 volte inferiore all'attuale, ciò nondimeno dobbiamo chiedere di constatare a colui che fa queste obiezioni che anche le tecniche e le conoscenze di coltivazione erano arretrate rispetto ad oggi.

Davvero non è possibile una coltivazione differente da quella del cemento?

La zona del basso Varesotto, della Brianza, dell'Alto Milanese, si può dire che dagli anni '60 del '900 non ha conosciuto altra coltivazione se non quella delle case e dei capannoni.

Solo ora il consumo di suolo viene finalmente percepito come dannoso per la salute, per il benessere, per l'ambiente, per la perdita di bellezza; nei fatti però siamo ancora distanti da una logica di preservazione delle scarse aree agricole e boschive ancora presenti. La ragione del consumo di suolo non è difficile da indagare: la leva è quella economica; una spinta alla trasformazione dei suoli che nonostante tutto perdura.

L'analogia del settore delle costruzioni con la coltivazione, è voluta e penso sia azzeccata, all'inizio è stato probabilmente così, mi spiego gli immigrati dal veneto e dal sud Italia negli anni '60 e '70 non hanno fatto altro che trasformare piccoli appezzamenti di terreno nelle campagne alle periferie dei nostri centri, in luoghi dove piantare la propria casa ed il proprio orto per la sussistenza famigliare, lavorando a fine turno o nel fine-settimana. Vi sono intere zone delle nostre città che sono state oggetto di questa “colonizzazione”, zone, in origine, prive di qualsiasi servizio e struttura urbana, dove spesso anche la costruzione della strada avveniva in autonomia.

La coltivazione delle case è cambiata nel tempo sino a diventare una monocultura semi-industriale. Le case a “corea”4 sono diventate piani di lottizzazione ed ora zone di trasformazione.

Penso che tutti abbiano bene in mente che oggi si costruisce non per necessità di nuovi alloggi; di invenduti e sfitti ve ne sono molti, così pure di stabili industriali ormai dismessi; si costruisce a mio avviso per alimentare il mercato. Cerco di spigarmi meglio con un esempio: tutti sono alla ricerca di una casa migliore, o di un posto più redditizio dove posizionare la propria attività (questa azione ha ricevuto negli anni delle facilitazioni economiche); la casa è una spesa importante, e su questa spesa ci guadagnano in primo luogo il possessore del terreno (soprattutto se trasformato da agricolo a residenziale), il costruttore, le banche, gli enti locali (Comuni) e più in generale anche lo Stato, inoltre ci lavorano un cospicuo numero di altri fornitori e professionisti. Insomma, si ha la consapevolezza che il mattone, come la sigaretta fa male, ma è difficile staccarsene.


Un possibile contrasto, non il solo, al consumo di suolo può essere l'agricoltura nelle zone ormai residuali e il volano deve necessariamente essere quello economico. Infondo l'agricoltura è l'altra faccia della medaglia del consumo di suolo. Non sto parlando certo dell'agricoltura mono-culturale, o dei grandi allevamenti che portano con loro altrettanto grandi problematiche ambientali, e che fortunatamente non potrebbero sussistere in aree frammentate, residuali, parcellizzate.

L'agricoltura di cui abbiamo bisogno è quella che tenda alla biodiversità, al commercio di prossimità, alla riduzione dei trattamenti fitosanitari, al recupero sebbene parziale della bellezza del paesaggio agricolo, un agricoltura e silvicoltura che possa essere parte del contrasto al cambiamento climatico, che recuperi la fertilità dei terreni. Non è semplice, l'agricoltura nella nostra zona è sempre stata “povera”, non vi sono grandi risorse idriche da sfruttare, che negli ultimi anni si sono ridotte ulteriormente; la presenza degli aeroporti ci mette a rischio di propagazione di specie parassitarie come ad esempio la popillia japonica, il clima non ci aiuta, ma questa è anche una delle ragioni per cui è necessario combattere questa battaglia di frontiera.

Certo il settore agricolo gode da sempre di una sorta di protezione fiscale e contributi in determinate aree, non le nostre, non posso ritenermi un esperto in materia fiscale, ma credo che le ragioni per sostenere l'agricoltura residuale nelle nostre zone siano evidenti, come peraltro sono evidenti i benefici ambientali e climatici che ne deriverebbero.

La leva fiscale può avere un'azione maggiore di quanto non si immagini, soprattutto in un momento in cui il mercato immobiliare non è cosi interessante, contando anche sulla poca appetibilità di contrarre un mutuo per gli interessi elevati in questo periodo, anche in tal senso il settore bancario potrebbe essere incentivato ad una differenziazione della concessione di mutui nel settore immobiliare nel caso si tratti di recupero del patrimonio esistente o nuova costruzione; magari concedendo qualche facilitazione ulteriore per il settore agricolo non mono-colturale e se proprio si vuole continuare a finanziare il settore edile che si privilegi il recupero del patrimonio esistente, con interventi maggiormente ragionati di quelli promossi sino ad oggi.

La leva fiscale ha già funzionato nel nostro territorio: l'introduzione del Catasto cosiddetto Teresiano ha stimolato lo sviluppo agricolo nel territorio lombardo e veneto. Il catasto impropriamente chiamato teresiano (è stato avviato da Carlo IV nel 1722, Maria Teresa è nata 1718 a lei si deve la prosecuzione dell'opera) è stata una grande opera di misurazione dello Stato (asburgico) al fine di poter tassare le rendite fondiarie in maniera equa. Questa azione, ovvero la tassazione è stata un forte incentivo per l'agricoltura affinché i terreni avessero una resa economica maggiore. In realtà questo processo era già in atto dal seicento, sotto lo stato spagnolo, ma non in maniera così sistematica, si sono tolte le esenzioni fiscali vecchie di secoli cosicché anche i possedimenti nobiliari e della chiesa fossero soggetti al pagamento delle tasse. Questa è una delle ragioni per cui nel nostro territorio si sviluppò l'industria serica e la coltivazione del gelso5.

Naturalmente oltre alla coltivazione del gelso nel nostro territorio si coltivavano cereali, ma anche ortaggi e vitigni. I cereali naturalmente venivano destinati alla macinazione: l'Olona era costellata di mulini ad acqua e quindi alla produzione di pane, era una produzione che godeva della prossimità della macinazione e delle possibilità commerciali che offriva il mercato di Milano. Gli ortaggi invece avevano un mercato esclusivamente locale, tutti o quasi il producevano per la propria sussistenza. Sono consapevole che, trattando questo argomento, a qualcuno potrebbe venire in mente il film “l'albero degli zoccoli” e i pomodori venduti a Milano.

Oggi sicuramente gli ortaggi avrebbero un'interesse maggiore di allora, se vi fosse la possibilità di creare un commercio di prossimità.

Molto interessante è la storia del vino nel nostro territorio, prima della diffusione in Europa della Peronospora (arrivata in Francia dall'America nel 1878) prima del '900 qui vi erano parecchi vigneti, non dobbiamo pensare a produzioni “standardizzate” come quelle odierne e sicuramente anche non di qualità eccelse, ma produzioni genuine e anch'esse godevano della prossimità di commercializzazione con Milano6.

Oggi vi è qualche sporadico esempio di recupero di questo patrimonio culturale e paesaggistico, la creazione di vigneti nella nostra zona non sembra avere il supporto che meriterebbe.


Un ulteriore esempio dei possibili risultati della leva fiscale, questa volta con segno negativo per l'ambiente, è constatabile in tempi molto più recenti con l'imposizione dell'ICI (imposta comunale sugli immobili 1992-2011), poi IMU (imposta municipale propria 2012 a oggi). Ci si riferisce esclusivamente alla parte riguardante i terreni destinati dallo strumento urbanistico comunale ad aree con una previsione di edificabilità. Questa tassazione (terreni con destinazione edificatoria non ancora edificati) aveva come ragione il forzare e accelerare la realizzazione delle previsioni urbanistiche. Nell'applicazione pratica ha creato un circolo vizioso: i Comuni hanno iniziato a destinare molte aree del proprio territorio all'edificazione, al fine di ottenere un incasso immediato, la situazione finanziaria di molti enti locali italiani ha favorito tale processo.


Se ci pensiamo bene è molto probabile che un'agricoltura di prossimità se sostenuta, possa garantire più posti di lavoro della logistica. Anche i Comuni possono fare molto nel sostegno di questo tipo di agricoltura, innanzitutto con la progettazione urbanistica, ribaltando la logica che ha dettato i Piani di Governo del Territorio sino a questo momento.

I comuni potrebbero contribuire al sostegno di una filiera corta, magari concedendo degli spazi per il commercio e lo scambio, con la promozione dell'agricoltura del proprio territorio, iniziando magari con le pratiche già sperimentate come la concessione di spazi per orti, favorire la creazione di associazioni in questo ambito, aggiungo a questa lista la realizzazione di serre bio-climatiche ad uso agricolo, che possono essere spazi di sperimentazione e di scambio di conoscenze.


Questo tipo di agricoltura non può avere come modello quella che si è realizzata negli ultimi anni, ovvero quella intensiva, mono-colturale. Si deve creare un modello differente da quello esclusivamente legato alla quantità e/o allo sfruttamento e depauperazione del terreno e delle risorse idriche. Questa agricoltura di prossimità deve essere particolarmente attenta ai temi ambientali, deve essere sperimentatrice di tecniche nuove che ridiano fertilità ai terreni, magari che riesca a trovare forme di guadagno alternative con l'apertura di questi spazi al pubblico, per didattica, tempo libero, auto-raccolta e perché no, anche auto-produzione.


Mentre scrivo sui media stanno dando la notizia che Philip Lymbery (direttore di di Compassion in World Farming) dice che “Ci restano solo sessanta raccolti. Investiamo nell'agricoltura rigenerativa", non credo che ci manchino solo 60 raccolti, in genere l'azione antropica viene quasi sempre sopravvalutata, anche nel caso della stupidità, avremo più di 60 raccolti, ma dobbiamo in ogni caso investire con un altro tipo di agricoltura





Note

3Stefano Mancuso – Fitopolis la città vivente – editori Laterza -2023

4 periferie milanesi punteggiate da disordinati e irregolari insediamenti spontanei, in gergo chiamati «coree». Vedi di Franco Alasia e Danilo Montaldi – Donzelli Editore, Collana: Saggi e scienze sociali, 2010

5AAVV – La Misura Generale dello Stato – storia e attualità del Catasto di Maria Teresa d'Austria nel territorio di Como – Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Comune di Como – Archivio di Stato di Como - 1980

6Sergio Redaelli – Varese Terra di Vino – Macchione Editore


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